Le missioni impossibili non mi spaventano

Intervista al dottor Marco Varini

Marco Varini è un medico da oltre 40 anni ed è stato tra i pionieri dell’oncologia nella Svizzera italiana. La sua storia è la storia dell’evoluzione delle terapie tumorali, della speranza di cura, della vita di migliaia di persone che hanno trovato una risposta alla propria malattia.

Perché ha scelto di fare l’oncologo?

Penso di avere da sempre un’attrazione fatale per le missioni impossibili. Ho sempre pensato che anche nelle situazioni più difficili si trova sempre una via d’uscita. Le difficoltà non mi spaventano e non mi fanno desistere anche se sembrano insormontabili.

Quali sono state le tappe fondamentali della sua carriera?

Avevo 32 anni, stavo concludendo la mia formazione in medicina interna al Kantonsspital di Zurigo. Era il 1975, una bella sera estiva di metà luglio. Il prof. Martz, padre dell’oncologia svizzera, aveva organizzato un rinfresco nel suo ambulatorio, per una delle sue laboratoriste, mia moglie, che lasciava il posto perché stava per avere la nostra seconda figlia. Quella sera tra il chiacchiericcio del più e del meno, mi si avvicina il professore e mi chiede serio se sono interessato a lavorare con lui. Non avendo ancora altre alternative, accetto senza pensarci due volte.

Com’era all’epoca la situazione dell’oncologia in Svizzera?

A quell’epoca l’oncologia non esisteva quasi. C’erano i malati di cancro, che dopo l’eventuale operazione erano praticamente abbandonati dai medici che si sentivano impotenti e senza risorse terapeutiche. Allora negli ospedali era difficile ottenere spazi dignitosi per accogliere e curare questi pazienti. Nella maggioranza dei casi l’oncologia era confinata in sgabuzzini e sottoscala. Nell’ambulatorio vedevo una quindicina di pazienti ogni giorno e non sempre potevamo offrire cure valide. Malgrado questa situazione furono i pazienti a conquistarmi. Avevano bisogno di venir curati, di venir ascoltati, di venir sostenuti. Sentivo il fuoco sacro di tentare l’impossibile per cambiare il loro destino. Sfidavo i miei professori ad andare oltre un atteggiamento medico rassegnato.

Un esempio?

Mi ricordo l’incredulità e lo scetticismo del primario di urologia, quando ho voluto trattare con una nuova chemioterapia, che negli Stati Uniti cominciava a portare a delle guarigioni, un suo giovane paziente affetto da tumore del testicolo. Ebbene quel giovane guarì e fu il primo di tante altre guarigioni. Sempre più attratto da questi risultati promettenti e volendo dedicarmi sempre di più alle cure oncologiche, decisi di andare all’Istituto dei Tumori di Milano, all’epoca uno dei più grandi centri europei. Ho lavorato con Gianni Bonadonna, uno dei ricercatori clinici più quotati a livello mondiale per il tumore del seno e i linfomi di Hodgkin.

Poi il ritorno in Svizzera…

Dopo 2 anni a Milano sono tornato in Ticino. Qui una delle maggiori difficoltà che trovai fu quella di far accettare a pazienti e famigliari, ma anche ai medici, il concetto che una diagnosi tumorale non è di per sé una condanna a morte e merita quindi di venir trattata. Piano piano passò anche da noi l’idea che una informazione adeguata ed empatica è un passo necessario per stabilire una alleanza terapeutica. Alleanza indispensabile per portare a buon fine ogni progetto di cura. Molti pazienti mi hanno ringraziato per aver condiviso con trasparenza difficoltà, dubbi e incertezze. Questo riscontro ha reso sempre più profonda la mia motivazione a continuare.

Quando ha scelto la libera professione?

Nel 1986 dopo parecchi anni nel settore pubblico mi sono lanciato creando il primo studio privato di oncologia in Ticino. Mi sono reso conto sempre di più che per curare e seguire bene i pazienti oncologici non bastava la professionalità medica, ma che altrettanto importante è la comprensione e l’attenzione al contesto socio-familiare, agli aspetti psicologici che la malattia può provocare e ai problemi economici e pratici della quotidianità. Da questo confronto con la realtà e sulla spinta di mia moglie, nascerà nel 1988 l’Associazione Triangolo, per offrire già allora quella che oggi viene chiamata oncologia integrata. Sono orgoglioso del fatto che nel 2009 siamo stati certificati dalla Società Europea di Oncologia Medica (ESMO) come “Centro ESMO di oncologia integrata e cure palliative”.

Vi sono dei pazienti che l’hanno colpita particolarmente?

A dire il vero questa è una domanda molto difficile, perché per ogni persona che avevo davanti ho cercato di dare il mio meglio e mi sono sempre interessato sia alla malattia, sia alla sua storia di vita. In alcuni casi però c’è stato un coinvolgimento emotivo maggiore. Ricordo una giovane donna, nemmeno trentenne, con un tumore al seno a prognosi apparentemente sfavorevole. Dopo relativo intervento e cure preventive ha potuto diventare mamma di tre bei bambini. Ricordo un ventenne ribelle, che non voleva sottoporsi alla chemioterapia che l’avrebbe guarito di un tumore al testicolo. Con grande fatica sono riuscito a convincerlo a lasciarsi curare. Oggi è un cinquantenne che gira felicemente il mondo. Ricordo la paziente in fin di vita per un carcinoma polmonare per la quale ho ottenuto con enormi difficoltà le pastiglie di un medicamento allora ancora sperimentale. Dopo pochi giorni questa signora mi telefona dicendomi che i dolori sono scomparsi, che ricominciava a camminare e che stava meglio. Questa telefonata mi ha riempito di un’emozione indicibile. Questa paziente vivrà ancora bene per oltre un anno. Un anno di vita che le è stato regalato. Ma c’è stato anche il paziente che mi ha maledetto perché ero impotente di fronte alla sua morte.

Quali sono oggi le aspettative di successo nella cura oncologica?

Le situazioni di miglioramenti o addirittura guarigioni insperate si sono fatte più frequenti negli ultimi 10 anni grazie soprattutto all’avvento di nuove categorie di farmaci che vanno oltre la chemioterapia convenzionale. I progressi tangibili stanno subendo una tale accelerazione che è lecito sperare per gli anni a venire in risultati ancora più sorprendenti. La ricerca oggi è ubiquitaria, avviene in parallelo in tutto il mondo, non è più legata a un singolo paese o istituto. Quando partecipai la prima volta nel 1979 al congresso della Società Americana d’Oncologia (ASCO) a New Orleans raggiungevamo a mala pena 3000 partecipanti, l’anno scorso a Chicago se ne contavano quasi 40’000. Gli oncologici esperti si trovano oggi in tutto il mondo, i limiti dipendono piuttosto dalle risorse disponibili, non sempre accessibili a tutti e in ogni paese.  Presto potremo guardare alle malattie oncologiche come guardiamo a qualsiasi altra malattia, senza più parlare del male oscuro ma di mali che sappiamo curare.

Esistono delle possibili criticità per il futuro?

Dovremo essere molto attenti e guardinghi perché come ogni grande trasformazione questi progressi genereranno nuovi e ancora mal prevedibili problemi a livello clinico, culturale, sociale, economico e quindi obbligatoriamente anche politico.  Il problema che sta chiaramente emergendo riguarda gli enormi costi da pagare per il progresso medico, costi che ben presto rischiano di non essere più sostenibili nemmeno dai paesi più ricchi. Un’altra mission impossible?